Le organizzatrici del Festival dell’Eccellenza al Femminile mi hanno gentilmente invitata il 23 Agosto, in occasione di una conversazione su “Il Femminile nel Mito e nel Teatro” che si sarebbe tenuta al Caffè Letterario dell’Isola del Cinema, qui a Roma, a ricordare mia madre, Anna Proclemer. Come mi ha scritto – con un po’ di enfasi – l’amica Eliana, che di mia madre era innamorata: nessuno, meglio di LEI può esserne un altissimo esempio.
Sono stata felice di partecipare.

Una mitica Anna dei Miracoli

Una mitica Anna dei Miracoli

Il titolo che mi era stato inizialmente proposto, era: “Le Donne del Mito, Interpretate a Teatro da Anna Proclemer.” Bel titolo, molto adatto al titolo generale della serata … solo che io non avrei saputo che dire. Perché di donne del Mito, nella carriera di mia madre, mica ce ne sono state tantissime… a meno di non voler considerare mitica qualsivoglia regina di una tragedia di greci, che di quelle, sì, ce ne sono state: Ecuba (la più “mitica di tutte, forse), e poi Clitennestra, Giocasta (che è parte non secondaria del mito di Edipo piuttosto che mito essa stessa)… e poi… non esattamente Fedra, ma La Lupa di Verga, che veniva introdotta da un pezzo della Fedra di D’Annunzio…

Ragazza di Campagna, con Renzo Ricci e Giorgio Albertazzi

Non tante “Donne del Mito”, quindi, nei 70 anni pieni di vita artistica di mia madre, ma semmai mitiche interpretazioni di donne normali: ricordo una certa Georgie Elgin, ad esempio: una sbiadita casalinga meglio conosciuta come La Ragazza di Campagna, una certa Anne Sullivan – una maestrina diventata Anna dei Miracoli – una Caterina Lehar – lesbica di religione protestante, di professione Governante; ricordo mitiche interpretazioni di donne di pessima fama: l’imprenditrice sessuale signora Warren, la “bagascia di fratta e di bosco” Mila di Codra, figlia di Iorio; e mitiche interpretazioni di donne pessime tout court: l’avida moglie praticamente uxoricida Regina Giddens di Piccole Volpi, la tremenda ex-attrice Alice che rende la vita sua e del marito un inferno strindberghiano in Danza di Morte; ricordo mitiche interpretazioni di donnette infelici e infelicitanti: la Martha di Chi ha paura di Virginia Woolf?, o anche la Anne Cayssac, detta “il flagello” nel Diario Privato di Leutaud; e ancora: mitiche interpretazioni di regine, oltre a quelle già ricordate: una grande Cleopatra, una Maria Stuarda nobile e innocente sulla scena quanto mai lo era stata nella vita reale, una Gertrude madre di Amleto…

Che poi Gertrude è uno di quei personaggi che solo grazie alla posizione che l’Autore ha dato loro nel testo – e grazie a una grande interpretazione – rimangono alla memoria come mitici. Mia madre era stata Gertrude – giovanissima, con Gassman, nei primi anni ‘50 – e se non avesse amato Albertazzi, non avrebbe mai accettato di reinterpretare questo personaggio all’inizio degli anni ’60.
“E’ una tinca!”, diceva.
E noi: “Ma dai… ma come…!”
“ E’ una tinca.”, insisteva lei.
“E la scena del closet?”
“Ma pensaci bene: dice solo: Amleto devi dirmi!… Che mi dici?… Non dirmi così!… Oddio oddio è pazzo!” – ed esaminando le battute di Gertrude in quella che dovrebbe essere la sua scena madre – a parte qualche volo poetico dell’autore – non si può non convenire che la sosranza è più o meno così.
Più per noia che per altro, mia madre riuscì a rendere assolutamente mitica la sua interpretazione di Gertrude, tanto che ancora se ne parla in qualche seminario di drammaturgia anglosassone.
Ve la racconto con parole sue.

la scena del closet

“Amleto di W.Shakespeare. E rièccoci con questa noiosa della regina Gertrude. ..
Comunque lo spettacolo di Zeffirelli era stupendo. Scenografia, costumi, luci di incredibile bellezza. Si faceva per due stagioni. Io mi annoiavo un po’. Una notte che non riuscivo a dormire ebbi un’idea folgorante che raccontai a Franco e che lui, da quel sapiente uomo di teatro che è apprezzò moltissimo e realizzò con grande acume.
Dopo la scena del closet con Amleto, quando il figlio le mostra i ritratti dei suoi due mariti e c’è questo scontro madre-figlio intriso di violenza e insieme di carnalità, e Amleto uccide Polonio ed è costretto a partire per l’Inghilterra ecc., passano alcuni mesi e Gertrude la si rivede con Ofelia ormai pazza.
La battuta di Ofelia suona : Where is the beauty of the Queen of Denmark? Che tutti traducono: “Dov’è la bella regina di Danimarca?”. In realtà si potrebbe intendere, forse più esattamente: “Dov’è la bellezza della regina di Danimarca?” – come dire: dov’è finita la bellezza ecc.?
L’idea che trasmisi a Franco era questa: Gertrude l’abbiamo vista finora in tutto il carnale splendore della sua femminilità. Sempre truccatissima. Vestita d’oro come un cioccolatino, con una scollatura che mi arrivava alla vita e lasciava scoperto il seno, tanto che quando il Corriere della Sera pubblicò la fotografia annerirono col pennarello quei due rigonfi a quel tempo scandalosi. Oppure vestita di un sensualissimo rosso-viola, oppure avvolta in una spettacolosa vestaglia rosa- grigio perla. I lunghi e sensuali capelli rosso fiamma sciolti sulle spalle.
Ecco. In quella mia notte insonne immaginai che l’orrore di quella scena col figlio l’ avesse fatta imbiancare di colpo. In una notte. Può succedere, per uno spavento o un grande dolore. La ritroviamo di colpo vecchia, canuta, la faccia devastata dalle lagrime.
Franco colse l’idea al balzo e montò la scena in modo magistrale. Mi faceva entrare lungo la ribalta, di spalle al pubblico. Indossavo un lungo vestito nero di breitschwantz, senza un ornamento che non fosse la lucida bellezza del tessuto di pelliccia. In testa una piccola parrucca di capelli bianchi, raccolti in forma molto castigata. Il pubblico, vedendomi di spalle, non mi riconosceva.
Ofelia veniva verso di me dal fondo scena, tendeva le mani verso il mio viso e diceva la sua battuta: “Dov’è la bellezza della Regina di Danimarca?” A questo punto io mi voltavo in silenzio verso il pubblico, col volto completamento struccato, via il rossetto, via il fard, le occhiaie annerite, gli occhi pieni di lagrime. Per il pubblico era uno choc. Si sentiva, materialmente, un sospiro trattenuto.
Quando portammo Amleto a Londra , all’Old Vic, teatro di Laurence Olivier, una sera che eravamo a cena insieme, lui mi disse:” Ma lo sai che in tanti anni, su Amleto ho pensato e fatto di tutto, ma quest’ idea di far invecchiare la Regina di colpo non mi era mai venuta. E’ bellissima. Te l’invidio.” Dio, che soddisfazione, per me! Feci la ruota come un tacchino.”
Questo episodio sembrerebbe confermare l’assunto di Albertazzi, che sostiene ogni due per tre che il testo non è che un pretesto per l’interpretazione dell’attore, che è il vero e unico e solo autore di un’opera teatrale – (due palle!) – invece, come dicevo, se ne è parlato proprio all’interno di alcuni seminari di scrittura drammaturgica proprio per esemplificare come in ogni testo teatrale scritto la verità di un personaggio non risieda solo nelle battute che l’autore gli fa dire, ma nello spazio per il gesto, l’atteggiamento, l’azione, le pause, e la possibilità di invenzione che l’autore costruisce per l’attore. “Il resto è silenzio.”, come dice Amleto. Ma è un silenzio che per avere valore e significato va scritto da un autore – checché ne dica Albertazzi.
Anna Proclemer fra le Donne del Mito ci sta comunque benissimo. Talmente bene che ricordando quanto era grande potrebbe essere facile dimenticare che era un’attrice modernissima. E per spiegarmi, devo risalire un po’ indietro nel tempo. A circa un secolo fa, quando Stanislavsky comparve a rivoluzionare la scena del teatro mondiale. A quell’epoca, gli attori antiquati erano quelli che si piazzavano in proscenio a gambe larghe e… “ora tocca al Commendatore”, come si diceva in Italia, cominciavano a declamare le loro battute con belle intonazioni e poco più. Poi arrivò Stanislavsky, e molto molto molto prima del Living Theatre, dimostrò che bisognava recitare con tutti se stessi.
In America, Lee Strasberg riprese il metodo Stanislavsky, che nella sua scuola, l’Actors’ Studio – venne chiamato “metodo” tout court. Mia madre adorava… non tanto il metodo, quanto gli aneddoti sul “metodo”. Primo fra tutti, quello famoso di Laurence Olivier che a Dustin Hoffman che durante le riprese del “Maratoneta” si presentava ai ciack affannato per aver corso per cinque volte attorno agli studios per “entrare nella parte”, diceva “Mio caro ragazzo, hai mai provato con la recitazione?” – o quello del regista che a dei provini, dopo aver visto un attore fare mosse di karate, esercizi di respirazione, e finalmente sistemarsi immobile nella posizione del loto, lo sollecitava: “Beh, allora?”, quando quello, invasato dal “metodo”, diceva: “Sto cercando il personaggio”, paternamente suggeriva: “Bravo, bravo, va’ a casa, e torna quando l’hai trovato.”
Insomma, a chi le avesse proposto di seguire qualche lezione dell’Actors’ Studio, mia madre avrebbe certamente risposto come Spencer Tracy: ‘Questi ragazzi di oggi mi dicono che dovrei provare questo nuovo Metodo, ma sono troppo anziano, troppo stanco e soprattutto troppo bravo per interessarmene’.

La Signora Warren
Proclemer si trovò in una occasione, a recitare a fianco di una seguace del “metodo” – il che servì se non altro ad accrescere la sa diffidenza nei confronti dello stesso. Accadde all’epoca della Professione della Signora Warren. Anche questa ve la racconto con parole sue:
“Claudia Koll era fisicamente perfetta nella parte di Vivie. Non fu una compagna facile. Piena di manie, di fissazioni. Non le si poteva rivolgere la parola, in quinta, nemmeno per dirle “buonasera”. La sarta non la poteva toccare, neanche per aggiustarle la camicetta o la cintura. E lei in compenso, appena usciva di scena, si sdraiava lunga per terra (con il costume bianco, orrore!) “Mi devo concentrare! ” disse allo scandalizzato direttore di scena che le aveva fatto notare come questo fosse contro ogni regolamento di palcoscenico.
Prima dello spettacolo, per una buona ora si “scaldava la voce” in camerino. Urla disumane, ruggiti, raschi, grida tribali che mettevano in agitazione Lulù, che a volte si lasciava sfuggire un “bau!” di protesta. Io la voce l’avrei persa in cinque minuti. Lei no. Però in scena parlava sempre un po’ tutto uguale e sottotono. Aveva il mito della Duse e un’aria sempre un po’ miracolata, che forse preludeva al misticismo tipo Madre Teresa di Calcutta che ostenta oggi.”

Ecuba

Il metodo male interpretato ci ha portato oggi ad un terribile equivoco: che chi dice bene le battute sia antico. E anche sul “dire bene le battute” possono esserci equivoci: ci sono battute che vanno articolate, altre che vanno biascicate, o urlate o mormorate o spezzate… per essere dette bene, vanno dette… come richiedono di essere dette (si suppone che l’autore abbia dato qualche indicazione al riguardo), ma questo può sembrare “antico” grazie a un altro madornale equivoco: quello sulla “naturalezza”. (Già è difficile essere “naturali” nella vita, comunque…) In scena la naturalezza va recitata, o sembrerà una pessima finzione che per di più non riesce ad oltrepassare la ribalta. “Larger than life” – questo è il teatro, sia scritto che recitato: sovradimensionato rispetto alla vita… Vogliamo dire mitico, tanto per restare in tema?
Mia madre le battute le diceva bene. Troppo, forse. E a volte questo non sembrava accettabile.
Ve ne do un esempio – anche questo con parole sue: – parliamo di Ecuba fatta allo Stabile di Roma, con la regia di Massimo Castri:
“Massimo Castri mi ha civilmente odiata fin dal primo giorno. Dico “civilmente” perché non mi ha mai affrontata di petto, ma mentre provavo lo vedevo laggiù in fondo in canottiera, che allargava le braccia (trionfo ciuffoso di peli ascellari), scuoteva la testa disgustato e un giorno lo sentii persino mormorare tra i denti: “Questa qui mi sta rovinando lo spettacolo…”
Beh, questo non era molto “civile”, diciamocelo. Ma, stranamente, non me la presi, né entrai in crisi. Dal suo punto di vista aveva ragione. Non potevo piacergli.
Lui chiedeva agli attori di mugugnare, bisbigliare, masticare le battute e poi risputarle ridotte in poltiglia, parlare al di sotto dell’audibilità. Invece di parole, borborigmi. Invece di frasi, incomprensibili sequenze di suoni non identificabili.
No, io non potevo fare questo. Avevo davanti un testo classico, tradotto in versi da un poeta contemporaneo accreditato come Giovanni Raboni, di un autore, Euripide, che aveva introdotto nella massiccia pietrosa perentorietà dei suoi predecessori (Eschilo e Sofocle) la novità di un’indagine psicologica prima di allora sconosciuta. Io avevo una scena con Agamennone, in cui Ecuba dispiega una serie di sottigliezze diplomatiche degne di Metternich.
No, non potevo borbottarle. Le dicevo. Semplicemente. Nel modo più disadorno possibile; ma dovevano arrivare, e arrivavano, all’ultima fila del loggione. Questo, Castri non lo sopportava…”
Lo spettacolo fu poi salutato sui giornali come “L’Ecuba della Proclemer” (e Castri non ne era granché felice)…

Era proprio una grande attrice. Ma quali sono le qualità che deve avere un grande attore? Olivier diceva: “Per prima cosa, la salute!” – e aveva anche ragione.
E il talento? Certo, nel costruire interpretazioni che si possano ricordare come mitiche – quello ci vuole. Ma il talento non è una malattia che si prende da giovani e da cui non si guarisce più; e non è neanche un raggio divino che scende dal cielo ad invasare un attore sera dopo sera: il “duende” (altra mania di Albertazzi ) – che a volte colpisce e molte altre volte no. Anche il talento si costruisce… con un… metodo… ma non siamo tornati a Strasberg… perché non c’è un metodo valido per tutti: ogni grande attore ha un metodo suo proprio.
Una grande attrice come Rina Morelli, ad esempio, che aveva una incredibile facilità di intonazioni, nei primi giorni di prova leggeva le battute senza neanche azzardare un’intonazione: compitava le parole con voce monotona, seguendole sul copione con un dito, con grande disperazione dei colleghi che non sapevano come rapportarsi a lei. “Io potrei trovare un’intonazione efficace all’impronta.”, spiegava lei. “Ma io non voglio trovare un’intonazione efficace: voglio trovare quella giusta!” Ecco: una grande attrice.
Un grande – grandissimo attore – che troppo poco viene oggi ricordato, Alberto Lionello, alla prima lettura del copione segnava con una croce i punti dove secondo lui (che aveva un’intelligenza della battuta magistrale e un orecchio sopraffino) ci sarebbe stato l’effetto – risata o lagrima, sorriso o groppo alla gola. Il resto del suo lavoro, anche oltre il debutto, era riuscire a prendere l’effetto che lui sapeva doverci essere. Era tutta una questione di tempi: dove la pausa, dove la sospensione, dove il rallentamento o il raddoppio della battuta, dove la battuta secca. Ci riusciva – invariabilmente: grandissimo!
Mia madre – e qui forse, ormai arrivati alla fine, vi sarà chiaro sia il titolo che ho voluto per questo mio intervento “L’interpretazione dalla testa ai piedi” sia perché l’ho definita moderna – partiva dalla parrucca e dalle scarpe. Che capelli aveva, il personaggio? – bruna, bionda, bianca, rosso naturale, rosso menopausa? Quale, la foggia? Ricci, raccolti in crocchia modesta bassa sul collo o regalmente alta sulla nuca, corti ondulati, medi a caschetto, coda di cavallo, lunghi e ondulati raccolti, lunghi e sciolti sulle spalle? Ardenzi, il suo impresario storico, diventava pazzo: bisognava trovare una sarta di compagnia che fosse anche parrucchiera (una spesa insopportabile, per lui che era famoso per avere il braccino corto!) – ma si rendeva conto che una parrucchiera in compagnia era una condizione essenziale per avere anche la Proclemer.
E poi le scarpe. Perché si cammina – e ci si muove – in maniera diversa, avendo i piedi nudi, tacchi a spillo 15, tacchetti larghi 5, ballerine, sandali, infradito, stivaletti, coturni…

Una volta stabiliti testa e piedi del personaggio, mia madre iniziava la costruzione dell’interpretazione, cominciando ad occuparsi anche di ciò che doveva dire.

Solo una volta, a mia memoria, crocchia regale di capelli argento e stivaletti sembrarono non aiutarla.
Questo è un episodio che vi devo raccontare con parole mie, perché mia madre sul suo sito non lo racconta. Spettri di Ibsen. Lei scrive:

“Per la prima volta facevo la madre di Albertazzi, mio coetaneo, anche se allora si calava un bel po’ d’anni. Essere sua madre in scena non mi imbarazzava. Come anni prima non mi aveva imbarazzato fare la madre di Gassman. Mi è sempre stato più facile in scena invecchiarmi piuttosto che ringiovanirmi. E poi mi piaceva questa signora Alvin. Una donna forte, libera pensatrice, costretta dalle pesanti convenzioni del suo tempo a mostrarsi debole, sottomessa e perfino vile, fino al tragico scioglimento finale.”
Quello che non ha scritto è che anche dopo aver stabilito testa e piedi del personaggio, le sembrava di non riuscire a rendere giustizia a questa signora Alvin. Finché, durante una prova, Albertazzi, che aspettava il suo turno per entrare in scena dalla platea anziché da una quinta, vedendola scendere regalmente le scale e porgere al pastore Manders la mano perché glie la baciasse, le disse: “Ma che fai? La signora Alvin è una che la mano la stringe – virilmente – non se la fa baciare.” Bastò quell’indicazione per risolvere tutti i problemi di interpretazione.

Perché – è qui la modernità – e ritorniamo a Stanislavsky – un personaggio non è solo quello che dice e come: l’attore moderno usa il proprio corpo – movimenti, atteggiamento – testa e piedi, appunto – come medium per esprimere quello che il personaggio non vuole, o non osa, o non sa di potere o dover dire. Così il non detto viene espresso con la stessa forza persuasiva di quanto è detto, la menzogna viene svelata, e sulla scena regna, in tutta la sua forza eversiva, la verità.

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