L’Angelo di Kobane di Henry Naylor è una storia vera, anche se leggendaria. Nel 2014 le famiglie curde fuggivano da Kobane per evitare l’inevitabile assalto dell’ISIS; Rehana rimase invece a combattere e difendere la sua città; come cecchino, avrebbe ucciso più di 100 combattenti dell’ISIS. Quando la sua storia è venuta fuori, è diventata una sensazione su Internet e un simbolo della resistenza contro lo Stato islamico ed è stato allora che è stata soprannominata “l’Angelo di Kobane”.
“Il mio sangue la mia ultima linea di difesa” è la frase che Rehana pronuncia quando, per non essere stuprata da un membro dell’Isis che l’ha comprata in un mercato di Raqqa, si sporca le mutande con il sangue di una ferita che si è procurata cercando di scappare. Non è permesso, infatti, possedere una donna che ha le mestruazioni: l’uomo sarebbe dannato e per lui non si aprirebbero le porte di quel paradiso in cui dovrebbero attenderlo 72 vergini come premio per la sua guerra santa agli infedeli. Rehana per questa volta è salva.
. “L’angelo di Kobane” è la piccola grande storia di Rehana. In scena c’è solo un’attrice. Viene da un altrove e si presenta nel qui e ora per tranquillizzarci, non vuole farci sentire in colpa, vuole solo raccontare una storia di cui nessuno parla. Vuole raccontare come è stata costretta a scappare di casa un giorno con sua madre, perché stava arrivando l’Isis, e come poi sia fuggita tornando a cercare il padre che a sua insaputa era rimasto a combattere. Vuole renderci partecipi di come da aspirante avvocato sia divenuta uno spietato cecchino delle YPJ e di come infine sia stata catturata e decapitata, infrangendo la regola d’oro “tenere l’ultima pallottola per se stessi”. Soprattutto ci racconta il suo amore per la vita e di come le violenze subite non l’abbiano scalfito. Ci racconta degli alberi della fattoria di suo padre che un giorno, già combattente, ritrova bruciati dai terroristi ma che ricresceranno anche grazie al sangue, suo e delle sue compagne, di cui il suolo sembra essere assetato.
Questo testo, un one-woman show, è la terza storia della trilogia Arabian Nightmares di Henry Naylor (le prime sono The Collector e Echoes) ed è stata messa in scena per la prima volta con grande successo all’Edinburgh Fringe Festival nel 2016. Da allora è stato visto in tutto il mondo con grande successo di critica, vincendo premi in molti festival internazionali. In Italia, con la traduzione di Carlo Sciaccaluga, è stato presentato nel 2018, e ripreso poi dal Teatro Piemonte Europa.
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